“La fotografia da Firenze al Piccolo Sud”
Emiliano Cribari nasce a Firenze nel 1977.
La sua ecletticità ha raccolto da subito la nostra attenzione e lo ha reso un nostro stretto collaboratore. Sue le foto di Villa Tolomei ed dell’evento “Hero a Firenze”. Oggi lo intervistiamo per sapere qualcosa in più del mondo della fotografia e dell’immagine.
Ciao Emilano, come sta la fotografia?
Se si osserva il fenomeno dalla parte dei fruitori la fotografia sta bene, sta benissimo. È infatti un pullulare di immagini, mostre, corsi, fotocamere… Quando mai la fotografia ha fatto così tanto parlare di sé? Se invece si osserva il fenomeno dalla parte di chi crea fotografia (per lavoro, intendo), allora è diverso: perché il digitale sta letteralmente massacrando il mercato professionale, illudendo le persone che fotografare sia semplice, quasi un gioco… Oggi le immagini scorrono a una velocità impressionante, sminuendo il lungo lavoro che il fotografo ha dedicato (o avrebbe dovuto dedicare) alla singola immagine. I numeri hanno sovrastato il tempo e la qualità. Ed è mortificante.
Da Firenze a “Piccolo Sud”, perché il meridione?
Il mio legame con il Sud è un legame di sangue e di memoria. Mio padre infatti è calabrese, e io ho avuto la fortuna di trascorrere quasi ogni estate della mia vita immerso in tanti piccoli Sud, che mi sono entrati dentro e che adesso, a distanza di anni, sto provando a raccontare tramite il filtro fotografico della memoria.
Credi sia fondamentale la scelta del mezzo fotografico come medium narrativo?
Per me sì, adesso sì. Non saprei e non vorrei raccontare diversamente. In generale, però, guardando al futuro, forse i racconti troveranno sempre più agio e più spazio dentro ai film, più che nelle fotografie. Sebbene io creda che la fotografia vivrà per sempre.
Cinema e fotografia convivono nella tua biografia da anni. Quale ritieni più indispensabile nella tua formazione?
Nella mia formazione il cinema, sicuramente. Il mio rapporto professionale con le immagini nasce sostanzialmente attraverso il cinema. Dal quale ho ereditato soprattutto la pignoleria, il gusto per la composizione scenica e la capacità di lavorare in gruppo.
Perché c’è un’altalena vuota nella tua home page?
Per due motivi. Innanzitutto perché l’altalena è infanzia, memoria, poesia. L’altalena è solitudine e periferia. È come un lamento inascoltato. Che mi affascina ed ispira. E poi perché quest’altalena è un’immagine-simbolo: è tutto e niente. E per un fotografo che fa matrimoni, pubblicità, fotografia d’interni e altro ancora mettere in home page un’immagine relativa a uno specifico ambito può significare allontanare possibili clienti (interessati ad altri ambiti). È come un invito innocente a entrare nel sito, insomma.
Il mondo del wedding sembra attraversare un periodo di riscoperta e la fotografia ha sempre avuto un ruolo centrale in esso. Pensi che stia cambiando qualcosa nel linguaggio visivo di questo settore?
Assolutamente. Fino a pochi anni fa la fotografia di matrimoni era (giustamente) considerata un genere di “Serie B”. Praticato perlopiù da hobbisti piuttosto che da fotografi inchiodati a un modo di lavorare molto classico. Il fotografo di matrimoni era quasi sempre un uomo di mezza età, vestito con un gilet blu scuro o marrone chiaro, impiccato a un sacco di flash e macchine fotografiche e che dopo la cerimonia “rapiva” gli sposi per ore obbligandoli a inscenare ridicole pose sotto qualche archetto in città o vicino a qualche fiore. Oggi per fortuna (fatte salve alcune eccezioni!) è tutto molto diverso. La fotografia è sempre più reportage. E i fotografi di matrimoni sono sempre più fotografi, in grado di dare vita a immagini straordinarie, a cavallo fra la moda e il fotogiornalismo di qualità.
Nel tuo portfolio c’è una tangibile distinzione tra scatti professionali e personali. Esiste un confine o sono figli di un’unica espressione?
La distinzione è rappresentata unicamente dall’assenza di un committente (nel caso degli scatti personali, naturalmente). Per il resto, trattandosi comunque del mio portfolio, la scelta delle immagini è sempre originata dal mio gusto, dal mio stile, pertanto il filo conduttore fra i due generi fotografici secondo me è comunque riconoscibile.
Nei tuoi progetti quanto gioca il tuo istinto e quanto la padronanza della tecnica?
Purtroppo sono schiavo della tecnica. Ossessionato dalla tecnica. E questo è un limite che non so perdonarmi. Sono capace di cestinare scatti fotografici (magari anche importanti) a causa di un leggerissimo, quasi impercettibile, micromosso. Non sorvolo su niente. Così facendo mi stimolo
continuamente a migliorare pur tarpando eccessivamente le ali al mio istinto, e risultando a volte poco creativo. È la mia atavica necessità di controllare sempre tutto, di dare sempre qualcosa di più del massimo che si può dare.
C’è qualcosa che proprio non digerisci del tuo mondo o della fotografia in generale?
Oltre a ciò che ho già detto nella prima risposta, direi gli abusivi. È un mondo pieno di gente che
ruba il lavoro a professionisti onesti senza pagare le tasse. È un meccanismo rivoltante, che per
fortuna però sembra sul punto di degenerare…
Quali sono i nomi che pensi abbiano influito sulla tua formazione artistica? Appartengono tutti all’arte fotografica?
No. Mi nutro quasi quotidianamente di libri fotografici ma i nomi che hanno influenzato la mia formazione fotografica appartengono tutti al cinema. Al cinema italiano di qualità. Da Nanni Moretti a Giuseppe Tornatore.
Di solito una domanda di rito è chiedere cosa consiglieresti a chi si avvicina al mondo della fotografia. Tu al contrario cosa sconsigli?
Sconsiglio di iniziare senza studiare. Di iniziare solo per guadagnare qualcosa. La fotografia professionale, quella dei fotografi veri, seri, può salvarsi soltanto attraverso un rinnovato e profondo rispetto nei confronti di quest’arte. E nei confronti di chi, quest’arte, la porta avanti con amore e con fatica ogni singolo giorno.